Di Marco Belletti
William Laws “Rusty” Calley jr è nato a Miami in Florida l’8 giugno 1943 ed è stato un militare ex-ufficiale dell’esercito degli Stati Uniti che ha combattuto la guerra del Vietnam. È diventato famoso, come criminale di guerra, in quanto responsabile – almeno secondo la giustizia – del massacro di My Lai, un piccolo centro abitato a circa 840 chilometri a nord di Saigon, durante il conflitto nel sud est asiatico.Esattamente 52 anni fa, il 16 marzo 1968, il massacro di My Lai fu una delle pagine peggiori nella già tragica guerra in Vietnam. Fu la carneficina di centinaia di persone inermi massacrate dalla compagnia agli ordini del giovane tenente Calley. Testimone della strage fu Ron Haeberle, fotografo inviato al fronte dal Cleveland Plain Dealer che alcuni anni fa rilasciò un’intervista al Time sulla sua esperienza.
“A chi partiva per il fronte – racconta Haeberle – dicevano: andate e sparate, i vietnamiti non sono umani”.
Quella che si è rivelata essere una dei più cruenti eventi nella più logorante guerra del pianeta, ha lasciato segni indelebili nei ricordi del fotografo: “C’era un uomo con due bimbi al seguito e un cestino in mano che andava incontro ai soldati, sul volto la disperazione. Gridava ‘No VC, No VC, No VC!’. Cercava di dire che non erano vietcong. Uno dei militari non fece una piega e sparò a tutti tre”.
È anche grazie alle fotografie di Haeberle che gli Stati Uniti presero coscienza di quanto stava accadendo in Vietnam, e forse contribuirono all’enorme diffusione dei movimenti pacifisti che dilagarono quell’anno in tutto il mondo.
Con i suoi 26 anni, il fotografo era uno dei più anziani della compagnia Charlie, in Vietnam da poche settimane, comandata dal tenente 24enne William Calley. Quel 16 marzo circolava la voce che i vietcong fossero nascosti nel villaggio di My Lai e anche se l’informazione si rivelò errata, e di guerriglieri non c’era traccia, la compagnia Charlie attaccò ugualmente il villaggio.
“Udii molti spari – ha proseguito il reporter nel suo racconto – pensai che fossimo finiti nel centro di uno scontro armato con il nemico ma in seguito vidi un soldato che sparava a un civile”.
Gli uomini del tenente Calley si abbandonarono alla tortura degli uomini, allo stupro delle donne e al successivo massacro. Non furono risparmiati neppure i vecchi e i bambini e come fu poi riferito da un tenente dell’esercito sudvietnamita, si trattò della vendetta per essere stati sorpresi in uno scontro a fuoco contro dei vietcong nascosti tra alcuni civili.
Fu solo in seguito all’intervento dell’equipaggio di un elicottero dell’esercito statunitense in ricognizione, che il massacro fu fermato. Il sottufficiale Hugh Thompson, pilota del velivolo, intimò ai commilitoni di fermarsi o avrebbe aperto il fuoco su di loro. E fu solo grazie al fatto che altri due altri componenti dell’equipaggio tenessero sotto mira con le armi pesanti i soldati, che Thompson riuscì a riprendere la mano la situazione e a far evacuare il villaggio. L’equipaggio per questo intervento fu in seguito premiato con la “Soldiers Medal”, la più alta onorificenza dell’esercito statunitense per atti di coraggio che non coinvolgono il nemico.
Fu follia omicida e delirio di onnipotenza. Haeberle raccontò di aver visto un gruppo di civili che si tenevano stretti tra loro sotto il tiro dei soldati.
“Credevo li interrogassero e invece li trucidarono”.
Non fu l’intervento dell’elicottero a far conoscere all’opinione pubblica statunitense la strage, bensì le foto di Haeberle che furono pubblicate sulla prima pagina del Vancouver Plain Dealer il 20 novembre 1969: un anno e mezzo dopo la tragedia. Le immagini non erano quelle ufficiali scattate con la Leica in dotazione dell’esercito, bensì quelle realizzate con la Nikon personale di Haeberle e sfuggite al controllo e alla censura militare.
Fino ad allora la storia del conflitto era la solita propaganda del soldato buono che aiutava un popolo a risollevarsi dall’oppressione cui lo obbligava un governo autoritario e despota: replica di quanto avvenuto con successo durante il secondo conflitto mondiale con gli Stati Uniti salvatori del mondo. Le foto del massacro di My Lai trasformarono immediatamente l’esercito USA in un colonizzatore spietato che portava orrore e morte.
In realtà le immagini del reporter circolavano già da qualche mese in modo non ufficiale, tanto che Calley era stato rimpatriato il 5 settembre 1969 e costretto a giustificare il suo cruento ordine che aveva portato allo sterminio di 347 persone innocenti – anche se ci sono fonti che affermano fossero 504 – compresi donne, bambini e anziani, oltre alla morte di alcuni soldati statunitensi.
Il processo iniziò il 17 novembre 1970 e si concluse il 29 marzo 1971: dopo che la giuria deliberò per 79 ore, il verdetto fu di omicidio premeditato. La difesa di Calley non funzionò e non gli fu sufficiente affermare che stava eseguendo gli ordini ricevuti dal suo superiore, il capitano Ernest Medina. Tutti i suoi responsabili, compreso Medina, furono assolti da ogni accusa legata alla strage, così come i 26 ufficiali e soldati accusati di complicità con il tenente.
Furono in molti a credere che Calley era stato utilizzato dall’esercito statunitense come capro espiatorio.
Il 31 marzo 1971 l’ex tenente fu condannato ai lavori forzati a vita ma già il giorno dopo ricevette un atto di indulgenza da parte di Richard Nixon, con l’ordine che fosse trasferito dal carcere agli arresti domiciliari. Per questa decisione Melvin Laird, segretario alla Difesa, si scagliò contro il presidente e iniziò la sua campagna per il ritiro delle forze armate dal Vietnam.
Calley scontò la pena ai domiciliari fino al 25 settembre 1974 quando la corte federale dichiarò che era un uomo libero.
Una recente indagine del Washington Post su quanto siano diversi gli statunitensi di oggi che hanno scelto Trump rispetto a quelli che avevano votato Nixon negli anni Sessanta, ha fatto riemergere dalle vecchie pagine del giornale la notizia che durante il processo a Calley nove lettere su dieci inviate alla Casa Bianca erano richieste di clemenza.