L’olocausto atomico è un tema che grazie a scrittori, registi e sceneggiatori è entrato prepotentemente nelle paure dell’immaginario collettivo, e non solo tra gli appassionati di fantascienza. Una bella spinta alla presa di coscienza di un pericolo atomico è sicuramente arrivata dai lunghi anni di guerra fredda, durante i quali Stati Uniti e Unione Sovietica hanno fatto a gara ad armarsi più dell’avversario e soprattutto a cercare di dimostrare di essere la prima potenza militare al mondo.
“Cronache del dopobomba” è un romanzo di fantascienza pubblicato nel 1965, scritto da Philip K. Dick (l’autore, tra gli altri, dei romanzi da cui sono stati tratti i film “Bladerunner”, “Minority Report” e parzialmente anche la saga di “Terminator”) che narra delle vicissitudini di alcuni personaggi sopravvissuti a un olocausto atomico causato da parte di un nemico sconosciuto: Dick non chiarisce se l’attacco sia stato condotto da una potenza comunista, forse i cinesi, o dallo stesso esercito statunitense a causa di un errore.
Più che sul disastro atomico, l’attenzione del romanzo – ambientato a metà anni Ottanta del Ventesimo secolo – è incentrata sui caratteri dei personaggi, con feroci satire sulle condizioni sociali post-atomiche degli Stati Uniti, praticamente molto simili a quelle di quando il romanzo fu pubblicato. Attaccando duramente ogni genere di guerra, nel pensare al titolo del libro (che in originale è “Dr. Bloodmoney, or How We Got Along After the Bomb”) Dick si ispirò a un film uscito nelle sale l’anno precedente che fu scritto, diretto e anche prodotto da Stanley Kubrick: “Il dottor Stranamore”, il cui titolo originale era “Dr. Strangelove, How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb”.
Tratto abbastanza liberamente dal romanzo di Peter George “Red Alert”, pubblicato nel 1958, il film ha per protagonista il generale Jack D. Ripper (il cui nome è un chiaro riferimento a Jack lo squartatore, Jack the Ripper in inglese) comandante di una base aerea statunitense. Questo psicopatico generale trasmette a 34 bombardieri l’ordine di reagire con armi nucleari a un attacco sovietico, in realtà mai accaduto. Il presidente degli Stati Uniti sarà così costretto a ordinare il bombardamento atomico di New York a compensazione dell’attacco sul territorio sovietico.
Kubrick narra un’assurda e reciproca distruzione di massa come se fosse una commedia nera, con il presidente più potente del mondo che diventa indifeso e senza possibilità di evitare l’olocausto in quanto anche un militare pazzoide è in grado di ordinare l’attacco nucleare.
Nella realtà i codici necessari per lanciare qualsiasi offensiva nucleare da parte degli Stati Uniti sono esclusivamente a disposizione del presidente, a portata di mano ovunque egli si rechi. E siccome il procedimento che il capo di stato americano deve seguire per azionare le armi nucleari non è semplice come premere un bottone, è stato creato un dipartimento interno al Ministero della Difesa con il compito di supervisionare tutti gli aspetti del processo di un attacco nucleare, codici inclusi, tenuti sempre sotto controllo.
Eppure, durante la presidenza Clinton, i funzionari di quel dipartimento scoprirono che i codici erano scomparsi. Ad affermarlo è stato il generale Hugh Shelton che dall’ottobre 1997 al settembre 2001 fu il capo degli stati maggiori riuniti: nella sua autobiografia del 2010, “Without Hesitation – The Odyssey of an American Warrior”, Shelton scrisse che nonostante uno sconcertante numero di ridondanze nel processo di controllo i codici sparirono.

I codici di autorizzazione dovrebbero essere sempre nelle vicinanze del presidente, portati da uno dei cinque assistenti militari, uno per ogni settore delle forze armate. I codici sono scritti su un biglietto rosso chiamato il “biscotto” tenuto in una valigia soprannominata “football” ma ufficialmente chiamata la borsa di emergenza del presidente.
Inoltre, ogni mese un funzionario del Pentagono – responsabile del corretto procedimento nucleare – si reca alla Casa Bianca per assicurarsi che i codici siano correttamente conservati e, ogni quattro mesi, sostituirli completamente.
Secondo Shelton, intorno al 2000 un assistente di Clinton dichiarò al funzionario del Pentagono che si era recato alla Casa Bianca per il solito controllo, che i codici erano regolarmente nella disponibilità del presidente, ma che questi era impegnato in un incontro importante e non poteva essere disturbato.
L’assistente assicurò che Clinton conservava i codici vicino a sé: benché sconcertato il funzionario ritenne credibile la scusa.
Shelton nella sua autobiografia afferma che in occasione dell’ispezione del mese successivo alla Casa Bianca si recò un funzionario diverso, al quale fu ripetuta la stessa scusa. Questa procedura del tutto scorretta proseguì fino a quando arrivò il momento di sostituire il codice con uno nuovo.
A quel punto si scoprì che l’assistente non aveva idea di dove fossero i vecchi codici, anzi che erano scomparsi da mesi senza che il presidente, convinto fossero ben custoditi, se ne fosse mai reso conto.
Dire che Shelton e l’allora Ministro della Difesa William Cohen si preoccuparono è ovviamente un eufemismo: fecero immediatamente sostituire i codici mancanti e si impegnarono a modificare il più in fretta possibile il procedimento, rendendo obbligatorio un controllo effettivo da parte di un ufficiale del Ministero della Difesa alla Casa Bianca: fu esplicitamente notificato che la persona incaricata avrebbe dovuto attendere tutto il tempo necessario per eseguire l’ordine.
Shelton e Cohen si diedero da fare anche per evitare che la vicenda diventasse di dominio pubblico, mettendo in grave imbarazzo la credibilità degli Stati Uniti.
“È stato un problema davvero grave – scrisse Sheldon nel 2010 – e l’abbiamo scampata per il rotto della cuffia. Si fa tutto il possibile e si pensa di avere un sistema infallibile, ma in qualche modo c’è sempre qualcuno che riesce a mandare tutto all’aria”. Sperando che quel qualcuno non si chiami Jack D. Ripper…