di Marco Belletti
Alphonse Allais è stato uno scrittore francese, umorista dallo stile pungente e specialista della teoria dell’assurdo. È a lui che si deve l’affermazione “Shakespeare non è mai esistito. Tutte le sue opere sono state scritte da uno sconosciuto che aveva il suo stesso nome”.
Con questo commento Allais si inserì a modo suo in una “querelle” che, iniziata nel diciottesimo secolo, ancora oggi non ha trovato una risposta soddisfacente: il dibattito sull’attribuzione delle opere di William Shakespeare. Negli anni sono state sollevate numerose ipotesi sulla vera identità del bardo inglese, o sulla possibilità che le opere a lui attribuite siano in realtà state scritte da un altro autore o da un gruppo di scrittori. Sono stati fatti i nomi di numerosi letterati, come Henry Wriothesley, Francesco Bacone, Christopher Marlowe, Robert Devereux, William Stanley, Edward de Vere e anche di un italiano: Michelangelo Florio.
Soprattutto in Italia sono emerse ipotesi che il vero Shakespeare fosse in realtà l’umanista e teologo in esilio Michelangelo Florio, scappato all’inquisizione dalla città natale Messina per poi trasferirsi definitivamente a Londra, dove si convertì al protestantesimo e si sposò.
In effetti, un misero attore inglese come avrebbe potuto conoscere e raccontare luoghi e nomi di Messina (“Molto rumore per nulla”), Venezia (“Il mercante”), Verona (“Romeo e Giulietta”) o Padova (“La bisbetica domata”)?
Già nel 1927 il giornalista Santi Paladino pubblicò un articolo in cui affermava che Shakespeare era Michelangelo Florio, basando questa teoria su un volume che era stato di proprietà dell’umanista contenente molti dei proverbi citati nell’Amleto. La stessa ipotesi fu riproposta negli anni Cinquanta da Enrico Besta, docente di storia del diritto italiano dell’Università di Palermo.
Invece nel 2002 un altro giornalista, il siciliano Martino Juvara, pubblicò il libro “Shakespeare era italiano” in cui riprese la teoria del bardo di origine italiana arricchendola di numerosi dettagli. Secondo Juvara, Michelangelo Florio era figlio di un medico e della nobile Guglielma Crollalanza, dal cui cognome deriverebbe lo pseudonimo inglese di Shakespeare: scrolla = shake, lanza/lancia = speare. Questa teoria sembrerebbe confermata dal fatto che su oltre metà delle 32 edizioni delle opere di Shakespeare pubblicate prima del “First Folio” del 1623, il cognome era scritto Shake-speare.
Juvara afferma inoltre che Michelangelo Florio era un bambino prodigio (a 16 anni conosceva perfettamente latino, greco e storia) e scrisse ancora adolescente una commedia in dialetto andata perduta: “Tantu trafficu ppi nenti”. Per sfuggire all’inquisizione che aveva nel mirino suo padre, Michelangelo fu mandato a Milano, quindi a Padova, Verona, Faenza e Venezia. Maggiorenne, soggiornò ad Atene, quindi in Danimarca, Austria, Francia e Spagna. In seguito tornò a Tresivio dove s’innamorò di una ragazza che si chiamava Giulietta ma la loro storia d’amore finì in tragedia quando la giovane fu rapita e quindi uccisa. Sconvolto, Michelangelo si trasferì a Venezia e – quando il padre fu torturato e assassinato dall’inquisizione – preferì Londra, dove cambiò identità e divenne William Shakespeare. O almeno sembra.
All’inizio ebbe qualche difficoltà con la lingua e fu aiutato dalla moglie, di una decina di anni più anziana, che sposò appena arrivato in Inghilterra, probabilmente già incinta. Le sue opere teatrali riscossero un grande successo e Florio/Shakespeare divenne ricco, famoso e apprezzato fino alla morte, avvenuta il 23 aprile 1616.
Juvara conclude la sua teoria affermando che la commedia “Much Ado About Nothing” è la versione inglese di “Tantu trafficu ppi nenti” (traducibile in italiano “Tanto rumore per nulla” che guarda caso è il titolo nella nostra lingua dell’opera shakespeariana) che Michelangelo Florio scrisse a Messina intorno al 1579.
Oltre a quelle finora citate, sono davvero numerose le argomentazioni sollevate negli anni a favore della presunta origine messinese di Shakespeare.
Ben quindici dei 37 drammi scritti da Shakespeare sono ambientati in Italia e molti titoli e nomi sono presenti nelle sue opere: Romeo e Giulietta, Due signori di Verona, Sogno di una notte di mezza estate, Il mercante di Venezia, Molto rumore per nulla, La bisbetica domata (che è di Padova), Misura per misura, Giulio Cesare, Il racconto dell’inverno, La tempesta (che inizia a Milano)…
Nell’Amleto sono citati i cognomi Rosencrantz e Guildenstern, che furono due studenti che frequentarono con Florio l’università di Padova.
Nel Mercante di Venezia i due personaggi Salanio e Salerio pronunciano espressioni marinaresche tipiche ed è citato il traghetto che unisce Venezia alla terraferma. Inoltre, dal testo trapela un’approfondita conoscenza delle leggi veneziane del tempo, del tutto differenti da quelle britanniche e che nessun inglese avrebbe potuto conoscere così bene. Infine, il maestro Bellario, è un chiaro riferimento a un professore realmente esistito e conosciuto a Padova, Ottonello Discalzio.
Giulietta e Romeo è una evidente citazione romanzata della storia d’amore vissuta da Florio in gioventù.
Il nome di William Shakespeare non compare nei registri della “Grammar School” di Stratford dove avrebbe dovuto studiare, così come non è registrato tra i soci del club che frequentava a Londra, dove invece risulta inserito Michelangelo Florio.
“Molto rumore per nulla” è interamente ambientata a Messina e contiene numerosi modi di dire locali, come quando il comandante delle guardie Carruba, nella prima scena del quinto atto, si lascia scappare un “Mìzzeca, eccellenza!”, espressione tipicamente siciliana difficilmente conosciuta da un inglese dell’epoca.
Ci sono poi numerose dichiarazioni a suffragare le teorie che a scrivere commedie e tragedie firmate da Shakespeare siano stati un letterato o un “pool” di scrittori, non il figlio di un povero guantaio analfabeta. E sembra che anche i tre figli del bardo fossero analfabeti.
Nel 1860 lo psichiatra John Bucknill scrisse che l’autore conosceva troppo a fondo la medicina per essere semplicemente un saltimbanco mentre lo storico John Mitchell a metà Novecento definì il bardo “lo scrittore che sapeva tutto”, con conoscenze approfondite di caccia, falconeria, etichetta di corte, sport, storia antica. Per esempio, in “Antonio e Cleopatra” Shakespeare ambienta una scena nella casa messinese di Pompeo: che il politico romano avesse una casa in Sicilia non è un’informazione che poteva essere conosciuta nell’Inghilterra di fine Cinquecento.
Un altro aspetto oscuro riguarda infine la conservazione dei manoscritti di Shakespeare. Sembra che nel diciottesimo secolo un religioso cercò in tutte le biblioteche nel raggio di 80 chilometri da Stratford-on-Avon testi del poeta, senza trovarne neppure uno. Ancora oggi non risulta che esista nessun manoscritto delle tragedie: trentasei drammi furono pubblicati nel primo in-folio del 1623, sette anni dopo la morte di Shakespeare. Alcuni ritengono che tutte le opere fossero in possesso della famiglia Florio, che non poteva in nessun modo giustificarne la proprietà.
Infine, c’è un lungo periodo oscuro, tra il 1585 e il 1592, in cui non si sa che cosa sia successo a Shakespeare: nessuna testimonianza e nessun documento si riferiscono a questi sette anni compresi tra il battesimo dei figli gemelli e il successo a Londra.
Ed è misteriosa anche la morte del bardo, in quanto nessuno sa quali siano state effettivamente le cause. Alcuni sostengono che pochi giorni prima di compiere 52 anni – Shakespeare dovrebbe essere nato il 26 aprile 1564 e morto il 23 aprile 1616 – si sia ammalato dopo una notte trascorsa a ubriacarsi in compagnia del più giovane commediografo Ben Jonson.