La patata bollente dell’Occidente, quella che nessuno vuole fra le mani, si chiama “foreign fighters”: i migliaia di cittadini europei che negli anni hanno sposato la guerra santa unendosi ai tagliagole dell’Isis. Molti di loro sono stati uccisi in azione, ma molti altri quelli arrestati che riempiono le carceri siriane e che stanno diventando un caso di portata internazionale.
A rilanciarlo in queste ore è la Turchia, che nell’atteggiamento muscolare assunto nei confronti dell’Europa dopo la delicata questione dei Curdi, riapre il caso e alza le minacce. Il ministro dell’interno Suleyman Soylu è stato chiaro: “Non siamo un hotel per membri dell’Isis di nessun paese. Non ci si può limitare semplicemente a revocare la cittadinanza e pensare che Ankara se ne faccia carico, è inaccettabile e irresponsabile. Rimanderemo nei loro paesi d’origine i membri dell’Isis che abbiamo catturato e detenuto”. Il riferimento è a paesi come Francia, Germania, Belgio e Olanda, che continuano a rifiutare il rimpatrio dei loro cittadini sospettati di jihadismo, trincerandosi dietro l’idea che debbano essere processati dove sono stati catturati. Una soluzione di comodo secondo Ankara, per scaricare ad altri il problema e sfuggire al timore di riavere per le strade delle proprie città soggetti potenzialmente pericolosi.
Si parla di 1.200 persone rimaste nel limbo, fra la guerra e le galere, e di casi che stanno anche diventando emblematici, come la “class action” di 23 donne terroriste olandesi che dopo essere state rifiutate dal proprio Paese hanno trascinato il governo nei tribunali per chiedere di poter rientrare insieme ai loro 56 figli.
Ankara ricorda che nelle scorse settimane, nel corso di un’operazione nel nord della Siria, ha arrestato altri 287 sospetti jihadisti, di cui ben 242 stranieri provenienti da 19 paesi diversi. Anche loro torneranno a casa, piaccia o meno.