Risale allo scorso ottobre, ma l’ha rivelato in queste ore il “Wall Street Journal”, un delicato caso che mescola il terrorismo internazionale con la privacy dei social. In quei giorni, alcuni agenti americani esperti di informatica stavano utilizzando “Pegasus”, uno spyware creato dalla società israeliana di cybersecurity “NSO”, per controllare l’attività in rete di alcuni soggetti sospettati di terrorismo, dopo “aver ottenuto l’autorizzazione di un giudice di un Paese dell’Europa occidentale”. Ma i sistemi di controllo di “WhatsApp”, l’applicazione di messaggistica diffusa in tutto il mondo, avvertono dell’intrusione e parte un alert che raggiunge circa 1.400 persone in cui si avvisa di una possibile violazione del loro smartphone, di cui si consigliava l’aggiornamento quanto prima.
Al pasticcio si aggiunge “Facebook”, che poco dopo denuncia l’intrusione di un gruppo israeliano di spionaggio accusato della violazione di migliaia di smartphone, infettati attraverso un software di controllo.
Passa qualche ora e trapela la notizia che fra gli utenti violati da un sistema sconosciuto c’erano giornalisti e attivisti politici, ma soprattutto un uomo – il vero obiettivo dell’operazione – un ex miliziano dell’Isis sospettato di pianificare un attentato terroristico in Europa.
Ne è nata una disputa legale in cui la NSO ha promesso “battaglia in tribunale” poiché gli strumenti di controllo utilizzati sono ad uso esclusivo di forze dell’ordine e delle agenzie di intelligence, con lo scopo di prevenire reati verso i minori e terrorismo.
Ma la notizia peggiore è un’altra: da allora, l’uomo che l’intelligence tentava di tenere sotto controllo ha fatto perdere le proprie tracce: una fuga che preoccupa e ha alzato il livello di allerta nelle polizia di mezzo mondo. Potrebbe colpire da un momento all’altro, ma nessuno sa dove e quando.