Come ogni giorno da quando era partita per il Kenya, Silvia quella notte era nella sua stanzetta, all’interno dell’orfanatrofio del minuscolo villaggio di Chakama, a circa 80 km da Malindi, dove lavorava come volontaria della onlus “Africa Milele”: dalla savana spunta un furgone che a tutta velocità attraversa il villaggio. È il panico: otto persone sparano all’impazzata e lanciano una bomba a mano, ma il loro obiettivo è solo uno: “la straniera”, Silvia.
Accadeva un anno fa esatto, il 20 novembre del 2018: per la giovane cooperante italiana iniziava un incubo che ancora oggi è avvolto nel più fitto mistero. Un anno fatto di silenzi e angoscia, interrotto ogni tanto da notizie e illazioni che ogni volta sembrano smentire quelle precedenti. L’unica cosa che resta di lei sono le sue treccine, tagliate dai rapitori e ritrovate nel fitto della foresta a nord di Malindi.
Si è parlato di indottrinamento e di una Silvia che ormai sarebbe irriconoscibile: costretta ad indossare un niqab che lascia scoperti solo gli occhi e forse finita nell’harem di un uomo. Qualcosa in più sembra muoversi quando nelle indagini, grazie ad una collaborazione fra il governo keniano e quello italiano, arrivano i Ros dei carabinieri, coordinati dalla procura di Roma, che sul nome di Silvia Romano ha aperto un fascicolo. Sono gli investigatori italiani ad accertare il dettaglio più importante, quello che da un anno toglie il sonno alla famiglia: Silvia è viva e si troverebbe in Somalia, prigioniera del gruppo islamista Al-Shabaab, vicino ad al-Qaeda, a cui sarebbe stata venduta qualche settimana dopo il sequestro, al termine di un numero non precisato di passaggi ad altre formazioni. Ma resta in piedi anche la pista che la giovane milanese sia vittima di un sequestro di persona ordinato da qualcuno, anche se sul conto non è mai stata avanzata una richiesta di riscatto. Per gli investigatori italiani, che hanno avuto accesso ai fascicoli d’inchiesta delle autorità keniane, Silvia sarebbe stata trasferita in Somalia poche ore dopo il sequestro, e tutt’ora sarebbe trattenuta in un’area del paese dove orbitano milizie vicine al terrorismo islamico. Il suo è “un sequestro politico, che presente lo stesso protocollo utilizzato per chi è sospettato di spionaggio”: Silvia era stata presa di mira perché sospettata di fare proselitismo religioso. Ma c’era anche un’altra ipotesi, quella che Silvia avesse assistito ad alcuni casi di molestie sessuali su alcuni bambini, per cui pochi giorni prima di svanire nel nulla avrebbe sporto denuncia ad una stazione di polizia.
Nei mesi scorsi, tre persone sono finite in galera, accusate di aver fatto parte del gruppo che ha rapito Silvia: Moses Luwali Chembe, Abdalla Gababa Wario e Ibraiam Adam Omar. Il processo a loro carico viene rinviato diverse volte, l’ultima pochi giorni fa per la fuga di Adam Omar, il più pericoloso dei tre, che sarebbe riuscito a fuggire. Gli inquirenti italiani stanno valutando l’ipotesi di una rogatoria internazionale, ma ogni ora che passa la preoccupazione aumenta: in Somalia questi sono i mesi delle piogge e delle alluvioni che rendono difficili gli spostamenti.